Quando ero piccola mia madre viveva costantemente nel timore che potessi rompermi l’osso del collo precipitando da qualche luogo spaventosamente alto che avevo raggiunto giocando ad arrampicarmi come una scimmia.
Si, amavo arrampicarmi, gli alberi erano i miei obbiettivi preferiti, ricordo che piantavo le mani sulla corteccia ruvida e se si incollavano di resina tanto meglio, perchè facevano presa, e poi incominciavo a salire, usando i rami come se fossero enormi gradini di una scala a pioli in grado di portarmi fino al cielo, salivo senza pensarci due volte e soprattutto senza preoccuparmi minimamente di come avrei fatto una volta giunta lassù a tornare con i piedi per terra, ricordo che il più delle volte, arrivata in cima, guardavo in basso e provavo un brivido di paura mentre ripetevo dentro di me “non guardare giù, non guardare indietro!”, alla fine sono sempre tornata sana e salva, senza mai rompermi neppure un osso e sempre con la voglia di riprovarci il giorno dopo.
Devono essere stati quelli i primi significativi sintomi della mia crescente incoscienza relativamente controllata, quella che nei giorni a venire mi avrebbe spinto a provare sempre nuove esperienze per sfamare la mia innata curiosità a toccare con mano e verificando sulla mia pelle sensazioni, emozioni, vibrazioni, che altrimenti non riuscirei a descrivere in modo così efficace.
Questa volta la mia incoscienza era motivata da un concreto interesse per una disciplina che stavo imparando ad amare quasi quanto lo scrivere: la boxe.
Avevo a che fare col mondo del fitness da alcuni anni e dopo aver guadagnato con sudore e dedizione un attestato che mi permetteva di mettermi anche alla prova come istruttore, essendomi appassionata inizialmente di arti marziali, mi avvicinai piano piano al mondo della boxe in modo del tutto personale.
Mi allenavo ogni giorno, spesso al mio sacco che avevo appeso nel garage ed oltre a diverse tecniche di calci, gomitate, ginocchiate, avevo imparato alcuni colpi fondamentali della boxe.
Per i miei allenamenti in quel momento ritenevo il tutto più che sufficiente, fino al giorno in cui la mia attenzione venne catturata da uno sloagan “VIENI A FARE LA BOXE” che era come un’insegna, il richiamo dell’associazione sportiva ASD BOXETORTONA, apparentemente un piccolo gruppo di atleti che si allenavano costantemente alle direttive di un maestro giovane che, come scoprii in seguito, amava utilizzare metodi forse un po’ spigolosi e tradizionali, ma che di sicuro nel silenzio generale stava creando dei giovani campioni in grado di portare a casa ottimi risultati.
Mi decisi a sfruttare ogni briciola della mia non certo vasta esperienza e tutta la resistenza che avevo imparato ad aumentare e a gestire allenandomi sistematicamente e con disciplina fino a quel giorno, per capire cosa succede durante un allenamento di boxe, per sapere chi sono le persone che si avvicinano a questa disciplina così antica e faticosa, a volte pericolosa e perchè no, ingloriosa, avevo voglia di imparare di più e di arrivare ad un confronto.
Quel giorno avevo il mio borsone in spalla, ero pronta a tutto, non mi spaventava la fatica fisica, era la mia emotività che come al solito facevo fatica a tenere a freno, ero abituata a sudare molto, a soffrire i dolori post-allenamento, a spingere in fondo finchè gli arti tremano sotto sforzo, persino a imprecare intimamente per arrivare un pochino più in là, ma avevo l’ansia.
Arrivata davanti alla palestra trovai il maestro fuori dall’ingresso che si presentò senza dimostrare un particolare interesse o curiosità nei confronti di una faccia nuova, mi strinse la mano e mi indicò la strada per gli spogliatoi senza aggiungere altro.
Tachicardia a tratti. Ma che cavolo mi succedeva? Ero di nuovo in cima all’albero…e stavo guardando in basso.
Indossai canotta e pantaloncini, le scarpe, portai con me le fasce ma i guantoni li lasciai nel borsone avendo la netta sensazione che non mi sarebbero serviti per la mia prima lezione di boxe. Negli spogliatoi incontrai qualche ragazza che bisbigliava, ma non credo che parlassero di me, sembrava che si chiedessero in cosa sarebbe consistito l’allenamento del giorno. Non mi preoccupavo di carpire informazioni, volevo scoprire tutto da sola.
Fuori dagli spogliatoi un corridoio lungo e stretto ci accolse nell’attesa che si liberasse la sala dove si stava svolgendo un altro corso.
Il maestro si confondeva in mezzo agli allievi, scherzavano sulla serata trascorsa insieme il giorno prima, se non si fosse presentato poco prima sarebbe stato difficile individuarlo nel gruppo, c’erano ragazzi e ragazze di età diverse di stature diverse, ma notai che nessuno di loro prevaleva sugli altri nè con il proprio abbigliamento nè con il proprio atteggiamento, tutti insieme sembravano un gruppo di amici che stavano per entrare al cinema.
Quel clima, solo apparentemente rilassato, riuscì stranamente a tranquillizzarmi, forse perchè odio stare al centro dell’attenzione e in quel momento nessuno sembrava far caso a me, proprio come se mi avessero sempre vista lì.
Finalmente entriamo. Quello che è successo dopo non era esattamente quello che mi aspettassi ma ci andava molto vicino per quanto riguarda la prova di resistenza.
L’allenamento non era costruito a ritmo di musica come ero sempre stata abituata, anche se la musica a dire il vero non mancava mai.
Vasco Rossi ci accompagnò per tutto il riscaldamento, era lì che correva in mezzo a noi, in quella sala che sembrava troppo piccola a contenerci tutti ma dove il maestro riuscì comunque a mantenere la sua promessa di farci sudare e di demolirci a dovere.
Quella corsa in cerchio mi dava l’idea di un enorme centrifuga dove ero stata sbattuta all’improvviso. Dopo una decina di giri nello stesso senso mi prese la nausea e ringraziai di non aver mangiato nulla da molte ore, cercai di ignorare quel persistente senso di malessere concentrandomi su quello che dovevo fare, ripetere i movimenti degli altri.
Dopo una corsa che sembrava non finire mai e dove alternatamente qualcuno camminava per riprendere fiato, ci disponemmo in ordine sparso alle spalle del maestro.
A questo punto la musica cambiò, lui sembrava caricato a molla di una energia quasi esplosiva, era difficile seguirlo, per tutti, a tratti impossibile, eppure qualcuno lo segue e sono tutti appena dietro di lui, pochi a dire il vero, ma era un numero sufficiente a farmi capire che era possibile farlo, così dopo alcuni attimi di esitazione riprovai più volte, ma il mio ritmo, per quanto stessi dando il massimo, non era mai sufficiente.
Non riuscivo a capacitarmi di quella tempistica applicata a movimenti così complessi come può esserlo un burpees, sembrava di osservare una immagine registrata e rimandata alla massima velocità.
Per fortuna quando iniziai a sentirmi nel posto sbagliato il ritmo si abbassò leggermente e nel mio cervello, assieme all’ossigeno, cominciavano ad arrivare una serie di risposte alle mille domande che mi ero posta fino a quel momento.
Ero a conoscienza che gli allenamenti di boxe fossero tra i più duri ma, al contrario di quello che si potrebbe pensare i guantoni, quel giorno, rimasero tutti negli zaini. Il maestro aveva intavolato una serie di attività di gruppo, sfide a colpi di push-up, balzi in avanti con aggiramenti di ostacoli, “lotte” di coppia, accasciati sulle gambe per imparare a mantenere equilibrio e stabilità.
Una volta, una giovane promessa del pugilato femminile conosciuta durante il mio soggiorno sportivo a Torino, mi spiegò che quando tiri un pugno, tutta la forza che si scatena dalla tua mano in realtà parte dai piedi. Dai piedi nasce l’energia che scorre attraverso il tuo corpo, salendo su per le ginocchia, le anche, il dorso, le spalle, i gomiti e soltanto alla fine si sprigiona dal tuo pugno con una potenza che, se praticata nel modo corretto, può essere devastante anche nei confronti di un avversario notevole. Tutto questo, quel giorno, l’allenatore ce lo stava spiegando con la pratica.
Dopo un’ora buona di allenamento estenuante dove però non mi ero mai sentita una “faccia nuova”, in quel clima amichevole e scherzoso, quasi da caserma che si era creato, il gruppo improvvisamente uscì, ma dove stavano andando tutti? dove?…sul tatami a fare un’altra mezz’ora di addominali misti. Qualcuno non sembrava molto felice di quel momento ma io si, per me quella fatica, paragonata all’attività precedente significava ricominciare a respirare ad un ritmo normale.
Mezz’ora tonda tra addominali e stratching, tra una battuta e l’altra, tutti ugualmente sudati, tutti ugualmente stanchi, compreso il campione italiano di light boxe, un ragazzo tranquillo e silenzioso che fino a quel momento si era allenato confondendosi con noi. Qualcuno aveva dato di più, qualcuno di meno, ma di sicuro tutti…avevano dato il massimo e tutti avevano lo stesso sorriso stampato sulla faccia, il sorriso di chi anche quel giorno era riuscito a “spostate l’asticella” un pochino più in là, un sorriso che chiunque, arrivando solo in quel momento, avrebbe trovato incomprensibile.
L’allenatore, il maestro…Nicholas, sempre lui. A fine allenamento scambiamo qualche parola in cui mi da alcune informazioni sui corsi, le visite mediche necessarie per poterli frequentare, e poi consigli sull’attrezzatura, guanti, paradenti, caschetto… sembra un pochino più socievole ma non parla molto, lo stretto necessario ma si sa, i pugili sono un po’ misantropi, si trovano, si aggregano, stanno tra i loro ‘simili’ e come dice qualcuno più famoso di me…fanno una comunità diversa.
Ero lì per un motivo e stavo portando a casa più di una risposta ma prima di concludere manifestai al maestro le mie perplessità sulla difficoltà oggettiva che palesemente aveva incontrato gran parte degli allievi, me compresa, nel provare a raggiungere alcuni ritmi di lavoro, secondo me, secondo quello a cui ero abituata a vedere in tutte le sale fitness in cui ero stata, forse sarebbe stato il caso di arrivarci un po’ alla volta, per dare modo a tutti di raggiungere gli stessi obbiettivi, ma in poche battute lui mi rispose spiegandomi che la boxe non ha diversi livelli, i più scarsi imparano dai più bravi, mi disse che è “una selezione naturale” dove vanno avanti solo quelli che hanno voglia di andare avanti, i più forti di spirito, i più tenaci, i più testardi, quelli che nella sofferenza riescono a costruire la loro crescita, insomma quelli che per andare avanti le lacrime le ricacciano indietro.
Era curioso come mentre lui mi spiegava tutte queste cose, forte delle sue esperienze e della passione per il suo sport, mi rendevo conto che lui mi stava spiegando la boxe negli stessi termini con cui io avevo sempre interpretato la vita.
Emily Dikinson scriveva “NON CONOSCIAMO MAI LA NOSTRA ALTEZZA FINCHE’ NON SIAMO CHIAMATI AD ALZARCI” beh, forse la boxe è proprio questo che fa: con la sua voce ruvida e stentorea, ti chiama ad alzarti, e se sai rispondere a quel richiamo, ti rende consapevole della tua altezza.
Forse effettivamente non è per tutti, ma io consiglio a quelli che si sentono molto coraggiosi e discretamente resistenti a farla questa esperienza, forse riusciranno anche loro ad arrivare fino in cima, forse anche loro come me, guardando in basso non avranno più paura e alla fine non vorranno nemmeno più scendere.
Silvia Simona Biolcati Rinaldi